I quattro cavalieri

Il bambino

Il bambino si avvicinò al vecchio e, tirandolo per la manica, lo pregò: “Tu che sei vecchio e hai visto tante cose, raccontami, se lo sai, perché siamo qui?”. Il vecchio, alzò la testa dalla ciotola e, agitando il cucchiaio come se fosse una spada, con voce aspra gli chiese “Vuoi davvero sapere?” Tre volte lo chiese e per tre volte il bimbo fece sì con un cenno del capo, troppo intimorito per aprire bocca.

Allora il vecchio, con un sospiro, mise di lato la ciotola e, lasciando raffreddare la zuppa, iniziò a raccontare: “Tanto tempo fa, prima dell’arrivo degli Ungri, prima che conoscessimo i Nibelunghi e la loro ospitalità, noi Ircani vivevamo felici nel caldo meridione, sotto un sole che cantava nel ventre delle spighe e nei filari dei vigneti. Ah, l’odore del mare quando lo scirocco lo faceva infrangere sui faraglioni di Tiro! Scusa, divago, tu vuoi la storia della nostra rovina, non quella della nostra letizia. Comunque, al tempo, dicevo, si viveva nell’Impero e Erode, l’imperatore, era stanco; stanco della pace che da troppo tempo aveva conquistato; stanco di un potere che era così saldo nelle sue mani da tanti anni che oramai tutto gli era venuto a noia: da troppe vite di uomini comandava sull’impero e ormai rimpiangeva la sua gioventù, le antiche glorie e una forza che era solo un logoro ricordo.

Il primo cavaliere

“E poi un giorno alla sua corte si presentò una cavallerizza su uno stallone bianco; ergendosi sulle staffe sfidò a gran voce chiunque in Erodia a scoccare una freccia più lontano di quanto potesse fare lei con il suo arco d’argento. Tutti si cimentarono nella sfida: nobili, soldati, eroi e stregoni: ma nessuno riuscì a batterla. Infine, Erode stesso si levò dal suo trono e incoccò una lunga freccia sul suo arco di corno e acciaio; la scagliò fin dove la sua forza poteva spingerla e poi oltre sul vento della nera stregoneria che alberga nel cuore degli Erodiani, fin dove l’occhio poteva vedere; al che lei tese il suo arco e, mentre la freccia d’argento volava oltre l’orizzonte, l’apostrofò: “Come la mia freccia cadrà oltre la vostra, così ci sono terre oltre il vostro dominio, che sfidano la vostra potenza e regalità; cosa vuole il grande Erode: battere una donna a un gioco buono per soldati o imporre il suo potere sui re che ancora gli resistono?” Al che Erode ne rimase affascinato, le porse il braccio e più non se ne allontanò: poiché il suo nome è Conquista e non c’è voce più dolce agli orecchi dei potenti.

Il secondo cavaliere

“Così Erode diede ordine di raccogliere il più grande esercito che avesse mai calcato la terra, e chiamò a sé i nobili di Erodia con i loro seguiti e impose a tutti i suoi tributari di mandargli truppe e acciaio. E vennero a Tiro gli Ircani, alti e possenti, e i Longobarbi nelle cotte d’acciaio; vennero i Tiranni con i loro abomini e i Forestari sui loro gufi; e i Visigobli, che egli aveva domato, scesero dalle terre selvagge con scimitarre e lupi. Il grande esercito si accampò fuori delle mura, aspettando che l’arsenale varasse la grande flotta che li avrebbe portati a conquistare le terre inesplorate di là dell’Oceano Stellato. Ma una flotta non si fa in un giorno e un esercito non si nutre di vento; così Erode mandò i suoi scherani per tutto l’impero a requisire grano e vino; olio e bestiame; tutto predavano per nutrire il grande esercito. Con loro cavalcava una magra signora su una giumenta nera, e pesava tutto quello che veniva requisito, ma i suoi pesi erano bugiardi e di più sempre chiedeva: poiché il suo nome è Carestia e chi la sente più non la dimentica.

Il terzo cavaliere

“Ma Carestia non cavalca mai sola. Dietro di lei viene la sua incestuosa sorella, che la segue ovunque vada, gelosa di chiunque l’abbia conosciuta; così, in groppa a un asino macilento, con una gualdrappa verde a coprirne le pustole, venne la pingue cavallerizza. Con dolci parole insinuò nella mente del popolo affamato pensieri immondi e, per sedare la fame che li attanagliava, in molti le diedero ascolto. Ma la sua falce miete veleno e morte, poiché il suo nome è Pestilenza e alle sue spalle cresce solo la gramigna della disperazione.

Il quarto cavaliere

“Così, mentre le lande ardevano delle pire funerarie, a Tiro si raccoglievano i frutti delle requisizioni. Dopo che furono raccolte le scorte e caricate sulle navi, l’immensa flotta salpò; ma per grande che fosse non si riuscì a imbarcare tutto l’esercito; in molti rimasero sulle banchine di Tiro, vedendo sparire nella nebbia l’imperatore con le sue navi, e nel loro cuore rimpiangevano la gloria e il bottino che veniva loro negato. Quando poi le poche scorte che non si erano potute stivare sulle navi finirono, le truppe rimaste presero a predare la capitale di tutto ciò su cui riuscivano a mettere le loro grinfie: donne, cibo, bambini, gioielli, palazzi, tutto requisì la truppa affamata; ma non bastava mai e, mentre la fame e la piaga premevano contro i bastioni, mise a sacco la splendida Tiro. Per sette giorni e sette notti bruciò la citta mentre la masnada affamata dava sfogo ai più bestiali istinti. A guidarli, a cavallo di una belva immonda, stava il loro duca, con l’usbergo tinto di cremisi dal sangue degli innocenti; poiché il suo nome è Sterminio e chi lo segue ripudia la pietà.”

Il vecchio

Il vecchio tacque, attirò a sè la ciotola, e riprese a sorbire la zuppa ormai fredda. Il bimbo lo guardava, ma non lo vedeva: i suoi occhi sognavano di Tiro, di Conquista e di Sterminio. Bene, pensò il vecchio, forse riuscirò a finire questa maledetta zuppa, prima che ripigli con le sue incessanti domande.

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